SOS ADOLESCENZA!

SOS ADOLESCENZA!

L’adolescenza è una fase della vita appassionante, complessa e meravigliosa, ma anche particolarmente delicata, per chi la vive e per chi ha il compito di stare vicino all’adolescente: genitori, nonni, insegnanti e altre figure educative, come allenatori sportivi, animatori o operatori di servizi educativi.

L’adolescenza è sempre stata una sfida, e lo è ancora di più nel difficile momento storico che stiamo vivendo.

Restano i temi universali come il passaggio da “piccoli” a “grandi”, la voglia di autonomia, la scoperta della sessualità, il conflitto con gli adulti e l’importanza dei nuovi legami con i coetanei.

A questi la pandemia ha aggiunto l’isolamento forzato, la privazione di contatti con il mondo, esperienze sociali e “riti di passaggio”, l’alienazione della didattica a distanza.

Tutto questo incontra una tendenza che perdura da almeno vent’anni, ma che sta conoscendo sviluppi in continua evoluzione: Internet, smartphone, tablet, videogiochi, Instagram, Snapchat, Netflix, Whatsapp, Facebook e molto altro, sono finestre sul mondo e sulle relazioni che hanno un ruolo sempre più significativo nella quotidianità di tutti noi, e dei più giovani in particolare.

Il mondo virtuale è ormai a pieno titolo reale, perché denso di effetti sulla realtà. E’ uno strumento, e come tale non è né buono né cattivo, ma può portare grandi opportunità o grandi pericoli a seconda che venga usato con equilibrio e consapevolezza, o meno.

Ma come districarsi nelle tante sfide del crescere un adolescente, o meglio del crescere “con” un adolescente?

Ogni adulto è stato adolescente, e quell’esperienza, comunque sia andata, è preziosa per consentirci di comprendere i bisogni, i sogni e le emozioni dei ragazzi di oggi, al di sopra di tutto ciò che li rende ai nostri occhi diversi, senza precedenti, “strani”, disorientanti.

Genitori, nonni, insegnanti, allenatori, educatori, animatori di ragazzi/e dagli 11 ai 18 anni: ho pensato ad un’iniziativa dedicata proprio a voi! Poi non dite che nel Biellese non si fa mai niente!

Come antidoto all’isolamento e alle tensioni sociali, possiamo ritrovare la voglia e la bellezza di incontrarci autenticamente, in presenza, per scoprirci tutti simili, tutti unici e nessuno solo nella grande avventura di fare crescere un altro essere umano.

Quello che vi propongo non vuole essere l’ennesimo “corso” in cui l’esperta di turno pretende di fornirvi una magica ricetta anti-problemi universale che in realtà non esiste (per fortuna, altrimenti non saremmo esseri magnificamente complessi!).

Ciò che faremo insieme è piuttosto un percorso, in cui gli esperti sono coloro che vivono l’esperienza, ed io sarò facilitatrice e custode di uno spazio dedicato a voi. Permettetevi di fermare un momento la macina delle giornate per sentire, pensare, condividere e trasformare l’esperienza in soluzioni creative, autentiche e davvero vostre.

Questo sarà molto più di uno spazio dove “sfogarsi” parlando: vi accompagnerò, se lo desiderate, ad una comprensione profonda dei ragazzi che vi stanno a cuore, e lo farò con l’uso di metodi attivi a volte spiazzanti, a volte divertenti, ogni volta coinvolgenti. Preparatevi a non essere più gli stessi!

Ci incontreremo per 6 appuntamenti settimanali il martedì dalle 18 alle 19.30 presso lo Studio Sponte in via Garibaldi 30 a Candelo.

Per poter creare un clima di condivisione sicuro e confidenziale dove ognuno si senta a proprio agio, il gruppo sarà piccolo, con un massimo di 10 partecipanti, e chiuso: è necessario iscriversi entro la data del primo incontro, e dopo non sarà più possibile l’ingresso di nuovi partecipanti.

Le date degli incontri saranno:

11 Gennaio

18 Gennaio

25 Gennaio

1 Febbraio

8 Febbraio

15 Febbraio

L’intero percorso prevede una quota di partecipazione di 120 euro esente IVA, fiscalmente detraibile come spesa sanitaria.

Per la sicurezza di tutti la partecipazione è riservata ai titolari di Green Pass.

Per iscrizioni, informazioni o semplice curiosità: 3404921139 – elisabetta.psico@gmail.com.

Navigatori dentro l’anima

Nella maggior parte dei percorsi terapeutici con i miei pazienti, se non in tutti, il rapporto con la famiglia diventa uno dei temi centrali. 

I messaggi, i modelli, le convinzioni profonde su noi stessi e sul mondo appresi dalle prime persone che abbiamo incontrato sul nostro cammino e che si sono prese (più o meno bene) cura di noi. 

Il ruolo assegnato ad ognuno nella narrazione della storia famigliare (l’eterna piccolina, colui che farà strada, l’erede dell’azienda di papà, il tappabuchi, il buono a nulla…), e l’eventuale discrepanza percepita rispetto ad esso. 

I valori, gli insegnamenti, le eredità morali e affettive che tutti riceviamo da chi ci precede. 

I legami speciali, spesso inconsapevoli e sotterranei, che si creano con uno dei nostri antenati o anche solo con il ricordo che ce ne viene trasmesso. 

Le esperienze indicibili, inespresse dei nostri antenati che ci condizionano sotto forma di tabù, paure, compulsioni o sintomi psicosomatici. 

Il dramma, squisitamente e universalmente umano, di trovare noi stessi e la nostra autentica strada in un inevitabile dialogo con la storia da cui veniamo e nella quale confluiremo, e la grande domanda: cos’è, se esiste, la libertà?

Ma è agosto, molti di voi sono al mare e i restanti vorrebbero esserlo, ne sono appena tornati o stanno per andarci, quindi come posso trattare un tema così pesante? Semplice, attraverso un film ambientato sul mare cristallino di un’idilliaca isola tropicale in cui la gente vive cantando, raccogliendo noci di cocco e indossando collane di fiori!

Oceania è per me uno dei migliori lavori della Disney, se non il migliore. 

Siamo sull’isola di Motunui in Polinesia, dove una piccola tribù vive una vita semplice, armoniosa e serena, tramandando le storie degli antenati e pescando nelle acque basse intorno alle spiagge. C’è una sola regola, che peraltro nessuno sembra lontanamente intenzionato ad infrangere: mai avventurarsi oltre la barriera corallina. 

Vaiana è l’unica figlia del capo tribù (ma questo, ci tiene a sottolinearlo, non fa di lei una “principessa”), solare, generosa, coraggiosa… c’è un solo problema: fin da piccola, la futura capotribù è ossessionata dal mare e dalla navigazione, cosa che le attira le preoccupazioni e la disapprovazione del padre. 

Questi un giorno la conduce nel luogo più sacro dell’isola: un ripido promontorio sulla cima del quale ogni capo (lui, suo padre, il padre di suo padre e tutti gli altri prima di loro) ha depositato una pietra piatta a formare, generazione dopo generazione, una pila che eleva l’isola verso il cielo. Un giorno, afferma perentorio, anche lei dovrà depositare la sua pietra. Questa immagine trasmette bene il peso che le aspettative famigliari e la missione transgenerazionale possono rappresentare per un individuo

L’unica che sembra condividere con Vaiana l’amore per il mare è la nonna, che tutti credono pazza per la sua abitudine di danzare con le mante nell’acqua bassa. Tra le due c’è un rapporto speciale, quella che definiremmo una forte lealtà transgenerazionale. 

Vaiana cresce dibattuta nel conflitto tra seguire la sua viscerale curiosità per la navigazione, o accettare il suo posto di comando nella tribù che mai e poi mai esplorerebbe il mondo al di fuori dell’isola. “In me c’è una figlia premurosa, ma vorrei più di ogni cosa avere la libertà” canta Vaiana, e “Mi saprò adattare se mi impegnerò, ma la voce dentro che grida No cresce forte in me”.

Qualcosa arriva però a rompere al contempo l’equilibrio precario nel cuore di Vaiana e l’immobilità apparentemente idilliaca della vita sull’isola: una carestia. Le palme da cocco danno frutti malati e i pescatori tornano a riva a mani vuote.

Vaiana propone di rivoluzionare i metodi di pesca cercando il pesce oltre la barriera corallina, ma suo padre la redarguisce pesantemente, con grande imbarazzo dei giovani pescatori presenti. 

Dopo questo ennesimo litigio tra i due, la madre rivela a Vaiana il motivo per cui il padre è così ferreo nell’affermare il divieto di superare la barriera corallina: da adolescente, anche lui era inquieto e curioso come lei, e anche lui tentò di avventurarsi nell’oceano, ma fece naufragio e perse così il suo migliore amico, che aveva voluto accompagnarlo. Impariamo con questo una caratteristica importante comune a molti mandati transgenerazionali, soprattutto imposizioni o divieti: hanno origine da un’esperienza traumatica, e vengono trasmessi ai discendenti come disperato tentativo di protezione da qualcosa che però non riguarda loro.

Il padre di Vaiana non è un mostro o un “cattivo” padre da demonizzare, un “problema” di cui Vaiana dovrebbe solo sbarazzarsi: è un essere umano che sta facendo del suo meglio, come tutti noi.

Sembra proprio che a Motunui si stia avverando l’incubo narrato dalla leggenda che la nonna ha sempre amato ripetere ai bambini dell’isola: mille anni prima il semidio Maui ha rubato il cuore di Te Fiti, la dea della Vita, per appropriarsi così del potere della creazione. Questo ha risvegliato la tremenda dea del vulcano Te Ka, anche lei determinata a impossessarsi del cuore. Nella lotta tra i due si sono perse le tracce sia di Maui che del cuore di Te Fiti, mentre nel dilagare dell’ira di Te Ka e nel sonno mortale di Te Fiti la vita si prosciuga e le sue forme si deteriorano isola dopo isola. Un giorno, però, sorgerà un eroe scelto dall’oceano, che ritroverà Maui, lo condurrà all’isola di Te Fiti e lo costringerà a riparare al male, restituirle il cuore e ripristinare la generosità della natura. Nessuno a parte la nonna sembra però prendere sul serio questa storia. 

L’inquietudine di Vaiana, il suo conflitto interiore è simile a quello che vive talvolta colui o colei che definiamo il “paziente designato”: un sistema famigliare più o meno disfunzionale si costruisce una parvenza di equilibrio “delegando” il malessere ad uno solo dei suoi membri, a cui viene assegnato il ruolo dell’elemento problematico, ribelle o inadatto. Questo membro, nella vita reale, è spesso colui o colei che più probabilmente si recherà in terapia, ma è anche colui o colei che ha in sé le potenzialità per rompere la catena di ripetizione transgenerazionale che dà luogo al malessere e cambiare il corso della storia.

Vaiana rompe gli indugi e tenta di superare il reef con una piccola barca da pesca, ma naufraga e torna a riva ferita e apparentemente decisa ad abbandonare ogni velleità di navigare.

A trovarla è la nonna, che la conduce all’ingresso di una grotta sbarrato con pietre e coperto di foglie: “Ti hanno raccontato tutte le storie del tuo popolo, a parte una…” In molte famiglie c’è un tabù, un non detto, una trasgressione, un segreto che va scoperto e finalmente espresso per poter sbloccare energie trasformative sino ad allora bloccate e risolvere il problema attuale.

“Entra, e batti il tamburo” indica la nonna a Vaiana. Batti il tamburo, fai sentire la tua voce, poni(ti) la domanda che ti pulsa dentro, e troverai risposta.

Nella grotta, Vaiana trova decine di imbarcazioni grandi e piccole, e ha una visione degli antenati della tribù, esperti navigatori che hanno esplorato le isole dell’oceano. 

“Eravamo navigatori!” Vaiana esce dalla grotta euforica, e domanda alla nonna perché a un certo punto la tribù abbia smesso di navigare: si tratta di nuovo di Te Ka, la cui ira ha reso il mare burrascoso e popolato di mostri. Dopo che alcune barche non fecero mai più ritorno, per proteggere la vita del loro popolo i capi di allora proibirono la navigazione e occultarono le barche rimaste. Ecco di nuovo all’opera il trauma nella genesi dei tabù transgenerazionali: proteggere la sopravvivenza da una sofferenza troppo grande patita in passato diventa la priorità, anche a costo di rinunciare ad importanti parti di sé e della propria identità.

Ora Vaiana è pronta per accettare se stessa: è lei l’eroe scelto dall’oceano (simbolo per eccellenza dell’inconscio e del profondo) per salvare ogni cosa. La nonna le consegna la piccola pietra verde, il cuore di Te Fiti, che ha conservato per tanti anni dal giorno in cui la nipote, piccolissima, ha visto l’acqua dell’oceano prendere vita davanti a lei e consegnarle il cuore, ma l’ha smarrito in acqua poco dopo e crescendo ha poi archiviato l’episodio come un sogno. Effettivamente i sogni, soprattutto quelli ricorrenti, in molti casi sono depositari di profonde verità su noi stessi, sulla nostra identità e sulla nostra storia.

Vaiana è ormai certa di aver trovato la soluzione alla carestia che affligge l’isola: superare il reef con le barche rinvenute, trovare Maui e condurlo a restituire il cuore di Te Fiti e risvegliare la dea della vita! La ragazza si precipita euforica nella grande capanna dove tutto il villaggio sta tenendo consiglio con il capo suo padre e rivela a tutti ciò che ha scoperto.

Il padre, furibondo come mai prima, si avvia deciso a bruciare le barche una volta per tutte, ma nel tragitto trovano il bastone della nonna a terra: l’anziana donna si è sentita male, è in fin di vita ed entrambi si precipitano al suo capezzale.

Con le sue ultime forze, la nonna consegna a Vaiana la collana con un pendente fatto per contenere il cuore di Te Fiti e le intima di partire immediatamente, rassicurandola: “ovunque andrai, io sarò con te”. E’ esperienza comune che alcuni oggetti possono caricarsi di forti significati, quasi di un’anima in rapporto ad una persona cara, fungendo da oggetto transizionale che aiuta nella separazione e nella perdita.

Vaiana parte su una delle barche trovate nella grotta, cantando “è una scelta soltanto mia, da te stessa non puoi fuggire via”. 

Poco dopo, in una delicata metafora, dal mare vede spegnersi le luci della capanna della nonna, e una gigantesca manta identica al suo tatuaggio nuota luminosa sotto la barca per accompagnarla tra le onde alte in corrispondenza della barriera corallina, il limite da superare per iniziare il viaggio che ci accomuna tutti e ci rende tutti eroi della nostra personale storia: il percorso di individuazione, la ricerca del senso della nostra vita.

“Io sono Vaiana di Motunui! Tu salirai sulla mia barca, navigherai l’oceano e restituirai il cuore di Te Fiti!” durante il viaggio la ragazza prova e riprova il discorso che la nonna le ha consigliato di rivolgere al semidio Maui quando lo troverà. Già, ma chi è davvero Vaiana di Motunui?

Questo Vaiana lo scoprirà, e lo dimostrerà, solo attraverso il viaggio che tra mille peripezie porterà lei e Maui di fronte all’enorme demone di lava Te Ka, ultimo limite da superare per arrivare all’isola di Te Fiti e salvare il mondo.

Nella lotta con la dea del vulcano Vaiana e Maui hanno la peggio: sopravvivono, ma Maui, adirato, abbandona Vaiana e la missione.

La ragazza, estremamente addolorata e rassegnata a rinunciare, supplica l’oceano di riprendersi il cuore di Te Fiti e di scegliere un altro eroe. Mentre guarda la piccola pietra verde affondare, proprio nel momento di più profonda difficoltà e solitudine, le appare nuovamente lo spirito della nonna, questa volta in forma umana. 

La nonna le offre la sola materia prima di cui abbiamo bisogno per nutrire le forze necessarie a realizzare il cammino dell’individuazione: amore incondizionato.

Le chiede perdono per aver posto il peso di un’eccessiva responsabilità sulle sue spalle, le fa notare che ha comunque dimostrato un grande coraggio e le assicura che non è obbligata a proseguire, e se desidera tornare indietro le sarà vicina. Le parole che le canta esprimono l’essenza della libertà di essere se stessi: “Le cicatrici che avrai ti guideranno dovunque tu sarai. Ti cambiano le persone che viaggiano al tuo fianco, ma tu hai una voce dentro, e quella voce vale tanto! Può rivelarti solo il tuo cuore chi tu sia.”

Appaiono nuovamente a Vaiana le navi degli antenati esploratori, e lo spirito dell’antico capo tribù nel farle un cenno di saluto le fa notare che il pendente contenente il cuore di Te Fiti era un tempo appartenuto a lui.

La nostra essenza, il senso della nostra vita affonda le radici nella nostra storia transgenerazionale, in un continuo dialogo tra irripetibile individualità e trascendenza sovra-personale, tra libertà e destino come facce di una stessa medaglia.

Nel nostro cammino di individuazione, esploriamo il mondo intero per ritornare al centro di noi stessi, ci avventuriamo nelle nostre profondità interiori per ritrovarvi l’umanità intera, guidati da una forza che è tutta nostra. Le parole che l’antico capo tribù canta mentre dirige la sua nave esprimono con un’immagine più potente di tante dissertazioni l’essenza del cammino di individuazione: “Navigatori dentro l’anima, però la strada che ci porta sempre a casa è scritta in noi”.

Ispirata da queste visioni, Vaiana si tuffa in acqua per recuperare la pietra cantando “io so ormai chi è Vaiana!”: anche senza Maui, è decisa a restituire lei stessa il cuore di Te Fiti.

Gli ultimi minuti del film riservano ancora uno dei più bei colpi di scena cinematografici a mia memoria, e non voglio rovinarvelo.

Il messaggio che ne emerge riguarda il grande potere della riparazione. Non possiamo cambiare il passato, ma c’è sempre qualcosa che possiamo fare, dentro o fuori di noi, per riparare ad esso, per ricucire la ferita, rimediare a un’ingiustizia, riportare l’equilibrio e sprigionare la Vita.

GENERAZIONE RUBATA

Forse non tutti sanno che in Australia, tra gli anni ’70 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, tra i 25.000 e i 100.000 bambini e neonati aborigeni furono tolti alle loro famiglie con la forza o con l’inganno (non di rado il personale ospedaliero faceva credere ai genitori che il loro neonato fosse morto per consegnarlo in realtà alle autorità preposte), per essere istituzionalizzati in orfanotrofi religiosi e cresciuti secondo la cultura anglosassone, ritenuta superiore. Il tutto non sull’onda della follia di qualche fanatico, ma secondo un programma governativo accuratamente legiferato: un’impresa gloriosa per la mentalità dell’epoca, un’atrocità per la sensibilità di oggi. 

Questo genocidio ripulito, senza sangue, è chiamato “generazione rubata”.

La stessa definizione mi viene in mente quando penso ai bambini nati in Occidente tra gli anni ’50 e ’80 del Novecento, ma soprattutto alle loro mamme.

Fin dall’Ottocento la scienza iniziò a ingegnarsi per sopperire ai bisogni alimentari dei neonati quando mancava il latte materno. La millenaria pratica del baliatico, già in decadenza e ampiamente problematica, non bastava più, e la somministrazione di latte animale tramite strumenti rudimentali spesso causava più problemi di quanti ne risolvesse, soprattutto in termini igienici: nell’Inghilterra vittoriana uno dei primi modelli di biberon si guadagnò l’infame soprannome di “bottiglia della morte” per la disastrosa diffusione di infezioni fatali causate dall’impossibilità di pulirne il lungo tubicino dove scorreva latte vaccino non pastorizzato diluito con acqua spesso malsana. 

Tra malnutrizione e malattie infettive, la mortalità infantile in Italia ancora a fine Ottocento portava via prima dei 5 anni un bambino su tre, e il massiccio calo progressivo che oggi rende l’Italia uno dei Paesi con la mortalità infantile più bassa al mondo ha avuto inizio più tardi rispetto all’Europa settentrionale.

Con il secondo dopoguerra e il “miracolo economico”, l’arrivo in Italia del latte artificiale destò la speranza di cancellare quel millenario trauma collettivo e porre fine a quella sofferenza.

Bisognerà attendere il 1994 per una prima legislazione in materia di promozione dell’allattamento al seno, e il 2005 per il divieto di attività promozionali di alimenti specifici per bambini sotto l’anno di età (divieto peraltro tuttora abilmente aggirato dal mondo del marketing con una varietà di strategie).

Il latte artificiale venne presentato come più nutriente del latte materno, oltre che più sicuro, pulito, igienico: queste idee sono semplicemente false, ma è facile immaginare come colpissero il cuore di madri che portavano con sé il ricordo d’infanzia sbiadito di un fratellino morto a un anno per una gastroenterite, o si prendevano cura quotidianamente di una zia inferma sin dalla tenera età a causa del rachitismo.

Tra il secondo dopoguerra e la fine del secondo millennio, dunque, i tassi di allattamento al seno scendono ai minimi storici. Esso viene scoraggiato con pretesti tendenziosi, non solo nei mass media e nel senso comune, ma anche, quel che è peggio, dalle istituzioni e dai professionisti sanitari. 

Il latte non sgorga abbondante fin dal primo istante? Signora lei non ha latte, ma nessun problema, prenda queste pastiglie per farlo andare via e vada di biberon. (Quindi non ho latte ma ho bisogno di un farmaco per farlo andare via? Dev’essere la stanchezza del parto che non mi fa capire…) 

Mi raccomando, dieci minuti da un seno, dieci dall’altro e poi basta, così mi ha sempre detto mia zia! Il bimbo piange affamato? Accidenti, evidentemente il tuo latte non è abbastanza nutriente. Però non attaccarlo più di una volta ogni tre ore, altrimenti gli sovraccarichi lo stomaco! Il latte artificiale è la soluzione! (Basta, ci rinuncio… Ma che dolore!)

Il bimbo ha già un mese e non le dorme tutta la notte? Piange spesso? Ha un peso anche solo di poco al di sotto della media (secondo statistiche basate, guarda caso, su bambini allattati artificialmente)? No che non è normale! Ha l’ittero, le coliche, i rigurgiti, la crosta lattea? E’ tutta colpa della sua ostinazione ad allattarlo al seno! Gli dia il latte artificiale e risolverà tutto! (Devo essere stata una mamma orribile finora… per fortuna posso riparare al male che ho fatto al mio bimbo grazie al latte artificiale!)

Il neonato vuole stare attaccato al seno un’ora? Dorme 40 minuti e poi vuole succhiare ancora? Guarda che così lo vizi, non ti resterà tempo per stira…ehm, per te stessa, e poi cara, allattando non puoi nemmeno indossare un vestito a tubino, che fine farà la tua femminilità? Allattare troppo rovina il seno, e te lo dico per esperienza, così distruggerai il tuo rapporto di coppia! (Mio marito non mi vorrà più e si cercherà un’altra, d’altronde è pur sempre un uomo… devo stare attenta e mantenermi attraente…)

E’ al secondo figlio e non ha allattato il primo? Non si sprechi in tentativi inutili, di certo non ce la farà neanche stavolta, perché faticare quando abbiamo il latte artificiale? (L’ostetrica ha ragione… sono un fallimento, proprio come ha sempre detto mia suocera… Non mi merito questo bambino… In fondo se io sparissi sarebbe meglio per i miei figli… Chissà quale pastiglie per dormire mi ci vorrebbero per non svegliarmi più…)

C’è chi dietro a questa ecatombe vede loschi complotti di interessi economici tra le multinazionali produttrici di latte artificiale e le istituzioni sanitarie. Non ho sufficienti informazioni in merito per esprimermi.

Di certo ora qualcuno penserà: che vuoi che sia, col latte artificiale siamo cresciuti tutti ed è andata bene così. E avete ragione: la stragrande maggioranza dei bambini allattati artificialmente cresce sufficientemente bene, da un punto di vista nutrizionale, ma anche relazionale ed emotivo, perché anche nella poppata con il biberon si può creare vicinanza fisica, dialogo di sguardi, un momento di coccole, elementi che rendono l’allattamento speciale. 

E allora perché mi infervoro tanto, se non per i danni che l’allattamento artificiale può fare ai bambini? Semplice, per quelli che può fare a quelle mamme che lo vivono come un sacrificio, una perdita indelebile, una ferita aperta, un male necessario, magari come il più grande rimpianto della loro vita o come il loro più grande fallimento. 

E’ evidente che la crociata contro l’allattamento al seno ha a che fare con la cosiddetta emancipazione femminile. Come ho scritto nel precedente post sull’allattamento, il termine “emancipazione” non equivale a “liberazione”, ma implica sempre la normatività di una disparità di potere. 

In altre parole, “voi donne sareste per natura destinate solo alla casa, alla cura dei figli e al lavoro non retribuito, ma visto che la società di oggi è magnanima e alla moda, vi viene elargita la possibilità di entrare nel mondo del lavoro stipendiato in aggiunta a tutto ciò che già fate e che continuerete a fare. Ovviamente però dovete essere produttive ed efficienti e non c’è tempo per allattare i bambini”. 

In altre parole ancora, “noi donne siamo state per millenni relegate un passo indietro, eterne seconde, sempre subordinate. Ora abbiamo l’opportunità di accedere all’indipendenza economica, al riconoscimento sociale, alle aspirazioni professionali e intellettuali. E’ la maternità ad averci private di tutto questo finora, perciò dobbiamo essere disposte a rinunciare a viverla pienamente”.

L’idea che a privarci di tante opportunità non fosse stata la maternità, ma la sovrastruttura sociale e culturale ad essa attribuita dal sistema industriale e patriarcale, e che la vera libertà non dovrebbe comportare un sacrificio, arriva solo recentemente.

Una donna torna al lavoro un mese dopo aver partorito, un’altra lascia il lavoro per fare la mamma a tempo pieno; una mamma è casalinga da sempre, un’altra guadagna più del marito e sarà lui a prendere aspettativa al lavoro per occuparsi del neonato; una neo-mamma scopre che l’allattamento è una delle più grandi esperienze di realizzazione della sua vita, un’altra decide di non allattare. 

Nessuna di queste persone è necessariamente più o meno libera delle altre, se la sua è una vera scelta, pensata, consapevole, spontanea nel senso più puro e moreniano del termine: dettata dai suoi bisogni autentici qui ed ora, libera da retaggi, sovrastrutture, aspettative estrinseche, copioni interni auto-limitanti.

Jung sostiene che uno psicologo per capire chi ha davanti deve usare la propria esperienza: ebbene, io dopo essere diventata mamma ed aver allattato mi sono sentita più che mai creativa, consapevole, terapeutica, capace di abbracciare psichicamente l’altro e di stare con il dolore: in definitiva, sento che la maternità ha contribuito a rendermi una professionista della salute mentale migliore.

Vivere la maternità, qualsiasi cosa questo significhi per ognuna di noi, può davvero liberare energie purissime, inaspettate, creative. Può davvero metterci in contatto con l’esperienza di qualcosa che ci trascende, che è più grande di noi. Può farci sentire di aver finalmente trovato il nostro posto nel mondo.

Ma questo, d’altronde, è il potere di qualsiasi autentica scelta che facciamo. 

LO SVEZZAMENTO… NON ESISTE!

Molti neo-genitori vivono il tema dello svezzamento con ansia e incertezza.

Quand’è il momento giusto per introdurre il cibo? Quando l’allattamento deve cessare? Come si fa a togliere al bambino l’abitudine di attaccarsi al seno? Quando arriva il momento in cui il seno diventa “un vizio”? Cosa succede ai bambini che prendono il seno troppo a lungo?

In questo post parlo solo di allattamento al seno, ma dedicherò prossimamente un post all’allattamento con biberon. 

Da dove viene l’idea che tra i quattro e i sei mesi sia indispensabile introdurre i cibi solidi, cominciando con banana, mela, carota, patata, zucchina e crema istantanea di tapioca, per proseguire secondo una tabella di marcia che definisce quantità, modalità di preparazione, successione e tempistiche per l’introduzione di ogni cibo nuovo? E soprattutto, chi ha deciso che dopo i sei mesi l’allattamento al seno deve cessare, e perché? 

Credevamo di avere tra le braccia nostro figlio, l’amore della nostra vita… abbiamo forse messo al mondo un inquietante Gremlin uscito da un tragicomico horror anni ’80 per trasformarsi (o trasformarci) in un mostro se trasgrediamo le regole sulla sua alimentazione?

Anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che dovrebbe rappresentare e guidare la comunità scientifica, ha riconosciuto il valore dell’allattamento al seno prolungato e ha smentito molte precedenti convinzioni sullo svezzamento, troppe persone e perfino troppi professionisti sanitari perseverano con un atteggiamento rigido riguardo allo svezzamento.

Facciamo un passo indietro e vediamo come siamo arrivate fin qui. 

Sembra ovvio che la spinta a svezzare i bambini il prima possibile ha a che fare con la necessità per le madri di tornare al lavoro dopo il periodo di maternità.

Le donne, badate bene, hanno sempre lavorato, fin dall’alba dei tempi. L’agricoltura, il commercio, l’artigianato, l’ostetricia, la sartoria e molti altri ambiti professionali sono sempre stati frequentati dalle donne diffusamente, non solo dalle rarissime figure eccezionali che oggi consideriamo pioniere: il mito dell’angelo del focolare dedito solo alla perfetta pulizia della casa e alla preparazione di manicaretti in funzione del rientro del patriarca non è che una favoletta borghese poco più che centenaria. 

Con l’avvento delle fabbriche prima e del settore terziario poi, però, la vera novità è una gestione del tempo definita e schematizzata rigidamente, una divisione di ruoli, categorie e compiti nettamente incasellata. Le donne (come del resto gli uomini) smettono di essere padrone, oltre che degli strumenti e dei frutti del loro lavoro, anche e soprattutto del loro tempo e della creatività che consentiva loro di conciliare lavoro e cura dei bambini. Tutto ciò plasma non solo lo stile di vita, ma anche gli atteggiamenti mentali delle persone. 

Due secoli di industrializzazione ci hanno abituate a sottostare a tabelle di marcia rigidamente prescritte dall’esterno e ad un atteggiamento mentale improntato alla categorizzazione, alla settorializzazione e alla divisione netta di ruoli, tempi, passaggi, fasi.

Si è andato riducendo lo spazio a disposizione per le sfumature, le incertezze, i tentativi.

L’imperativo della produttività ci ha fatto disimparare che difficoltà, rallentamenti, ritorni e aggiustamenti fanno parte del gioco. 

L’epoca del progresso ci ha illuse di poter controllare tutto e ci ha rese incapaci di relazionarci con l’ignoto, generando intorno ad esso ansie, paure e rifiuto anziché curiosità e accettazione.

Il moltiplicarsi di opportunità, possibilità, scelte e alternative che ha reso le nostre vite libere, interessanti e ricche come mai prima d’ora ci ha anche rese insicure e bisognose dei punti di riferimento che abbiamo perso con lo sfaldamento delle comunità rurali, degli stili di vita tradizionali e delle famiglie allargate.

Finora non è stato possibile, perlomeno in Italia, apportare sostanziali modifiche agli altri addendi della somma: il ruolo del padre e il mondo del lavoro. Pertanto, non abbiamo avuto scelta che fletterci, farci fluide e fare le acrobazie per adattarci a ogni situazione, come abbiamo sempre fatto.

Passare dal latte al cibo a quattro mesi, come raccomandavano i pediatri pochi decenni fa, sembrava l’unica soluzione, e sapendo che è dannoso perché troppo precoce, i pediatri si sono ingegnati per renderlo il meno dannoso possibile: di qui l’ossessione per misurini, pappette e brodini, nonché la paranoica prudenza nell’introduzione di nuovi cibi, accortezze quasi del tutto inutili quando si rispettano i tempi di maturazione del bambino, o almeno quando si approfitti dello slancio di clemenza generale che negli ultimi decenni innalzerebbe a sei mesi la data di scadenza delle nostre tette, e ad un anno le colonne d’Ercole oltre le quali la compresenza di alimentazione solida e allattamento diventerebbe un assoluto abominio. 

L’allattamento al seno in questo quadro risultava quasi un problema, un intoppo di cui era indispensabile liberarsi al momento prestabilito (da qualcun altro). Una volta soddisfatto in altro modo l’ovvio bisogno di alimentazione, i bisogni di legame e di intimità anch’essi parte dell’allattamento perdevano legittimità in quanto ostacoli all’indipendenza… di chi? E da che cosa?

Per rendere questo compromesso più accettabile, ecco farsi strada nei discorsi dei professionisti e nell’immaginario collettivo l’idea squisitamente proiettiva che il distacco dal seno allo scoccare dei tot mesi sia nell’interesse del bambino, per liberarlo da un “vizio”: un vizio, forse, che lo renderebbe difforme dal buon cittadino industrializzato, il vizio, forse, di disporre del proprio prezioso tempo, di gestire creativamente i passaggi della vita, di dare la priorità alle persone sulla produttività, di non accontentarsi dell’”emancipazione” (termine che implica sempre la normatività di uno squilibrio di potere) ma pretendere la libertà?

La buona notizia è che, se andiamo a ripulire lo svezzamento da tutte queste sovrastrutture, lo vediamo per quello che è: un mero costrutto sociale, culturale, storico, antropologico proprio dell’Occidente moderno e post-moderno. Se arriviamo al cuore della cosa, alla natura, lo svezzamento… non esiste. E con esso non esistono le ansie, le forzature, le aspettative, le date di scadenza, i sensi di colpa e i conflitti che sembravano destinate ad accompagnarlo.

Molte madri che hanno avuto il privilegio (perché questo è diventato) di vivere un allattamento di successo, in seguito non ricordano con esattezza quando e come il bimbo abbia smesso di prendere il seno, tanto il passaggio è stato lento, sfumato, graduale, sereno, quasi inavvertito. Sì, c’è stato quel periodo in cui chiedeva il seno solo al momento di addormentarsi, poi ha preso a chiederlo solo qualche sera e non altre, finché a un certo punto non l’ha più chiesto e nessuno poteva sapere quale sera sarebbe stata l’ultima.

Altri bambini chiedono un distacco netto, da un giorno all’altro, e il difficile compito della mamma è accettarlo senza sentirsene rifiutata e senza ostacolarlo, magari per un proprio bisogno di coccole, intimità o di sentirsi una buona mamma: bisogni del tutto legittimi, che però non vanno confusi con quello del bambino e troveranno nuove forme di soddisfazione. 

Il bambino può compiere questo passaggio a quattro mesi come a tre anni, e questo non rende lui e la sua mamma più o meno “bravi”.

E quando è la mamma a sentire il bisogno di porre fine all’allattamento? Qui mi viene da dire che si tratta di procedere come faceva Michelangelo, convinto che la sublime figura che avrebbe scolpito stava già dentro la pietra, e tutto ciò che lui doveva fare era scavare per togliere materiale fino a liberarla. Se eliminiamo retaggi esterni, richieste o implicite aspettative che ci arrivano dagli altri, dall’ambiente professionale o dall’immaginario collettivo, sensi di colpa dovuti a differenti immagini di noi stesse in conflitto, per rimanere sole con il nostro qui ed ora, è probabile che scopriremo che quel bisogno non era autenticamente nostro. Ma se lo è, se è davvero espressione di libertà, merita tutto il rispetto del mondo. 

Quanto all’introduzione del cibo, anche qui ansie, forzature, delusioni, fallimenti e frustrazione scompaiono come per magia se recuperiamo la fiducia nel bambino e nella natura.

Il bambino che riesce senza difficoltà a stare seduto e ha iniziato a mettere i primi denti manifesterà interesse per il cibo dei genitori in modo davvero inequivocabile: eccolo il momento giusto, eccola la guida infallibile che cercavamo in pediatri, libri, incontri informativi e webinar.

Questo è nella nostra natura.

Letture per approfondire:

Io mi svezzo da solo – Lucio Piermarini

Chi ha cucinato l’ultima cena? – Rosalind Miles

Donne che amano troppo

Quale donna non ha mai amato troppo almeno una volta nella vita? Ripubblico un interessante articolo di una collega che non ho mai incontrato ma che sento vicina.

LiberaMente Coaching - il Blog

La prima volta che ne ho sentito parlare – come di una categoria a sé stante – si è trattato di un gruppo Facebook chiuso. Ho tentato di accedervi, inoltrando la richiesta e sinceramente curiosa, ma mi sono imbattuta in un muro di diffidenza da parte delle admin, a causa della mia identità professionale: “Sei psicologa? No, non possiamo ammetterti al gruppo. Perchè? Tratta di dipendenza affettiva e rapporti disfunzionali. Di solito non ammettiamo psicologi“.

Questa decisione mi ha profondamente colpita: non ne ho proprio compreso le logiche. Mi sono domandata in che modo la mia presenza potesse disturbare i membri del gruppo, ed a qual punto ho cominciato a fantasticare sul tenore delle conversazioni, considerata la reazione delle admin. Così ho deciso approfondire l’argomento, e mi sono imbattuta nell’omonimo libro di Robin Norwood, recensito praticamente ovunque come un cult. Se il titolo non fosse stato…

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TORNEREMO AD ABBRACCIARCI – PARTE II – IL BALLO COME FORMA DI CURA PER L’ANIMA

In questo periodo di isolamento forzato, che molti di noi vivono con tristezza, frustrazione e paura, voglio scrivere nuovamente di qualcosa che possa trasmettere vitalità, vicinanza, speranza, eros nel senso più ampio del termine. Qualcosa di volutamente leggero ma non banale: il ballo.

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Recentemente ho pubblicato un primo articolo sul tema, che potete trovare qui: https://elisabettaranghino.com/2020/03/17/torneremo-ad-abbracciarci-parte-i-il-ballo-come-forma-di-resilienza-psico-sociale/

Non parlo tanto della danza come forma d’arte che avviene su un palcoscenico, appannaggio di pochi corpi eletti e domati da una vita di studio, quanto del ballo come pratica popolare, accessibile a tutti, e che trova la sua ragione d’essere non negli occhi di chi guarda, ma nel suo stesso movimento vissuto e nella relazione che si crea tra i ballerini.

Spesso chi attraversa un periodo di depressione, chi è reduce dalla rottura di una relazione o chi ne ha una problematica si sente consigliare dagli amici di iscriversi a un corso di ballo: dietro ad un apparentemente banale “tirarsi su il morale”, “conoscere gente nuova” e “svagarsi”, c’è molto di più.

Ogni ballo ha per così dire un mondo che si porta dietro: in una parola, una sua anima.

Ogni ballo nasce in un contesto storico, geografico e socio-culturale preciso, spesso, come ho narrato nel primo articolo, caratterizzato già di per sé da un’alterità: una comunità di migranti, come gli italiani in Argentina che diedero origine al tango, o di deportati, come gli schiavi che in Brasile inventarono la capoeira per aggirare il divieto di allenarsi nella lotta per riconquistare la libertà, oppure di nomadi, come i gitani che con il loro secolare cammino hanno tracciato un unico ideale passo di danza che collega Bollywood e l’Andalusia.

Le ibridazioni fanno parte della storia, la contaminazione è nella natura delle cose, l’alterità è cultura, la cultura non può che nascere nell’alterità.

Lo stesso vale per l’incontro e la relazione tra due persone. Non saremmo umani, non potremmo esistere senza gli incontri, le relazioni e le appartenenze di gruppo che caratterizzano e trasformano la nostra vita.

Noi siamo anche i nostri legami, le nostre esperienze, le nostre relazioni, gli ambienti che frequentiamo, siamo quelle cose che per noi sono importanti e piene di senso: quello che in psicodramma si chiama “atomo sociale”, e che non a caso un nuovo membro del gruppo viene invitato e accompagnato a mettere in scena per presentarsi durante la sua prima sessione. L’atomo sociale, a questo punto dovrebbe essere evidente, non è qualcosa di statico, ma è in continua evoluzione, trasformazione e movimento.

Non possiamo ballare da soli fin dall’inizio e per sempre, né possiamo ballare per tutta la vita nello stesso modo.

Per Jung, tutto l’universo si regge sulla tensione dinamica tra opposti: vita e morte, luce e ombra, maschile e femminile. Opposti che si cercano, si avvicinano, si allontanano, si avvicendano, si tengono in equilibrio a vicenda, opposti in cui ognuno dei due poli esiste grazie all’altro.

La stessa tensione dinamica, lo stesso equilibrio di forze, la stessa reciprocità fa muovere una coppia di ballerini.

Il ballo è incontro allo stato puro, l’incontro che Moreno, pioniere dello psicodramma, definì poeticamente “quando i miei occhi saranno i tuoi occhi e i tuoi occhi saranno i miei”.

Danzare, e soprattutto danzare in coppia, ci porta fuori dalla nostra zona di comfort verso lo spazio dell’Altro, richiedendoci allo stesso tempo di non invaderlo. Ci chiede di rinunciare al totale controllo della situazione per farci guidare, dall’altra persona se danziamo il ruolo della dama, e soprattutto dalla musica in tutti i casi. Ciò presuppone un continuo esercizio di rispetto di sé e dell’altro.

Occorre forza, coraggio e padronanza di sé per guidare, ma altrettanto per farsi guidare, magari da una persona mai vista prima.

Eppure, scatta una connessione di energie, come un elastico che tiene insieme i movimenti dei due. Uno dei pregiudizi più diffusi della nostra cultura riconduce il contatto fisico a qualcosa di necessariamente sessuale: non è così. Certo, la pista da ballo si presta bene al nascere di attrazioni e innamoramenti, ma l’intesa di due ballerini ha molto a che fare con qualcosa, se possibile, ancora più primordiale e istintivo del sesso: il gioco.

Dopo una giornata di serissimo lavoro al computer, un noiosissimo viaggio in autobus trascorso al cellulare e un controllatissimo pasto consumato davanti alla TV, tendiamo a dimenticarci che siamo anche e fondamentalmente corpo: il ballo è lì a ricordarcelo.

Siamo un corpo che ha desiderio e bisogno di muoversi, di giocare, di incontrare altri corpi.

Il ballo è uno dei pochi momenti in cui a noi adulti è concesso giocare come facevamo da bambini. Se un alieno che crede di conoscere bene gli umani ma non sa cosa siano la musica e il ballo arrivasse sulla Terra e atterrasse proprio nel dehors estivo di un locale durante la settimanale serata latina, o ad un concerto di musica occitana, o in un capannone dismesso adibito a milonga, crederebbe di trovarsi davanti la pura follia: perché si muovono queste creature? E’ un movimento senza uno scopo pratico. Non si stanno spostando da un luogo all’altro, non stanno fuggendo da un pericolo, non stanno cacciando, né mangiando. Perché non risparmiano energie e non se ne stanno fermi? Cosa li agita? Eppure ho imparato che quando la loro bocca ha quella forma all’insù vuol dire che sono contenti, direbbe tra sé l’alieno. Anzi, poche volte ho visto gli umani così soddisfatti e spensierati.

Se è piacevole e non ha uno scopo pratico, allora è un gioco.

“Ciao, facciamo che io ero un drago e tu un mago? Quello era il castello, tutto intorno c’era la lava bollente ma noi volavamo in alto verso il tesoro…” Certo, perché no? Niente di più semplice.

“Chi arriva per primo a quell’albero è il re del mondo!” Perché? Per nessun motivo, ma in questo istante è di estrema importanza.

Un foulard messo in un certo modo, ed eri la tua maestra di scuola preferita. Lo avvolgevi in un altro modo, ed eri una sirena. Lo agitavi in aria ed eri una guerriera a cavallo. Lo gettavi a terra e diventavi una principessa su un tappeto volante.

Dico, ve lo ricordate?

Se non ve lo ricordate, dovreste ballare.

Se ve lo ricordate, dovreste ballare.

TORNEREMO AD ABBRACCIARCI – PARTE I – IL BALLO COME FORMA DI RESILIENZA PSICO-SOCIALE

In questo periodo di isolamento forzato, che molti di noi vivono con tristezza, frustrazione e paura, voglio scrivere di qualcosa che possa trasmettere vitalità, vicinanza, speranza, eros nel senso più ampio del termine. Qualcosa di volutamente leggero ma non banale: il ballo.

Il ballo non è, e non è mai stato, “solo” un divertimento.

Fin dai tempi antichi, il ballo ha sempre avuto un ruolo importante a livello psicosociale in moltissime culture e società e in infinite forme diverse, dai raffinati valzer viennesi alle esplosive danze africane, dal picchiettio serrato del lavoro di piedi delle danze irlandesi al luccichio di gonne colorate delle danze mediorientali.

Di certo il ballo di coppia è da sempre la via maestra per canalizzare la sessualità, il corteggiamento e il desiderio erotico entro forme di espressione simboliche, codificate, socialmente accettabili e soggette allo sguardo collettivo in luoghi e contesti pubblici, come feste e ricorrenze: un modo, quindi, per controllare senza reprimerla questa forza dirompente insita nell’umanità. Diverse culture hanno raggiunto questo scopo in forme diverse ma ugualmente coinvolgenti, dall’intimo abbraccio della kizomba al solo contatto occhi negli occhi della boreia occitana.

Ma c’è anche di più.

Storicamente, molti balli nascono in contesti di crisi e difficoltà, in gruppi sociali oppressi e discriminati, quasi sempre “fuori luogo”: migranti, schiavi, deportati, rifugiati. Il ballo si fa strumento di riscatto culturale o anche di ribellione, in senso ampio, politica. Farò un esempio.

Nell’eredità di una delle più immani ingiustizie nella storia dell’umanità, la tratta di schiavi dall’Africa occidentale alle Americhe e il successivo periodo di segregazione razziale, nasce lo swing: molto più di un ballo o di una famiglia di balli, lo swing è stato il movimento culturale e di costume che ha dato il via all’integrazione tra bianchi e neri negli Stati Uniti d’America.

Il nome stesso, swing, rimanda all’idea che l’accento ritmico possa spostarsi dalla posizione “forte” o battente, a quella “debole” o levante: una rivincita in musica.

Il ballo swing per eccellenza, il lindy hop, nacque ed ebbe il suo primo periodo d’oro ad Harlem tra gli anni ‘20 e ‘40 del Novecento. E il secondo periodo d’oro? Per trovare risposta andate ora, appena si potrà farlo, nelle scuole di ballo e nei locali di Torino, Milano o Roma.

Uno dei più iconici tra i passi di lindy hop ne racchiude forse l’essenza. Fu inventato da due leggende del ballo, Frankie Manning e Frieda Washington. I due si danno le spalle, i gomiti si allacciano, con una perfetta sinergia di forze l’uomo si china in avanti mentre la donna rotola all’indietro sulla schiena, vi resta per un momento e prosegue il suo mirabolante arco, incredibilmente completa il cerchio e atterra con un balzo di fronte a lui, pronti per continuare a danzare.

La portata simbolica di questa acrobazia va ben oltre il semplice stupore o ilarità che poteva suscitare nello spettatore.

Frankie e Frieda erano afroamericani nati negli anni ‘10 del Novecento, la schiavitù era stata abolita nel 1865: forse i loro nonni erano nati schiavi. “Guardate queste caviglie che volano in alto, le vostre catene io non le porto più!” Sembrano gridare i piedi di Frieda che si agitano verso il cielo. “Guardate quanto peso posso portare e farmi rimbalzare addosso, lo stesso faccio con le fatiche e le umiliazioni che ci avete imposto per secoli!” Sembra dire la schiena di Frankie che accompagna come un tappeto elastico il salto dell’amica. Poi il movimento prosegue, tondo, fluido e leggero come solo l’armonia di due forze può essere: con un capovolgimento di corpi due ballerini hanno messo sottosopra gli squilibri del potere costituito. Addirittura? Sì. Mi spiego meglio.

Lo stile, i movimenti e lo spirito di questo ballo molto giocoso e divertente sembrano sbeffeggiare i balli sofisticati e impostati che si danzavano nelle ville dell’alta società bianca dell’epoca, presso le quali tra l’altro molti afroamericani lavoravano con mansioni umili.

Al razzismo e al senso di superiorità della buona società bianca che li trattava, se non più come oggetti di proprietà, certamente come esseri di serie B, gli afroamericani ballando il lindy hop rispondevano con ciò che ha sempre caratterizzato le minoranze etniche e sociali “vincenti”: ironia, autoironia, senso di unione e appartenenza, resilienza, capacità di trasformare i limiti in opportunità.

Il lindy hop affascinò a tal punto gli americani di ogni origine, colore e classe sociale da influenzare l’immaginario collettivo, la cultura popolare, i fenomeni di costume, l’allora giovanissimo cinema, e da portare bianchi e neri sulla stessa pista da ballo almeno 40 anni prima della completa abolizione delle leggi di segregazione razziale, diventando il primo prodotto culturale originale afroamericano ad entrare a far parte della cultura statunitense tout-court.

Per farla breve, i bianchi morivano dalla voglia di imparare un ballo inventato dai neri per prendere in giro i bianchi. E insieme si preparavano a dare scaccomatto alle disuguaglianze e ai pregiudizi.

Altre volte l’emarginato, il fuori luogo, il battito debole alla ricerca del suo accento siamo stati noi.

Il tango, oggi associato ad un’immagine di intensa sensualità e femminilità, in origine era molto distante da ciò: è nato nell’Ottocento tra i migranti originari dell’Italia settentrionale in Argentina, uomini soli la cui nostalgia, struggimento e senso di perdita si riflettono nelle sonorità e nei testi dei brani musicali.

Oggi sembra scandaloso che in un noto programma televisivo due uomini abbiano formato una coppia di ballerini per una stagione, ma alle sue origini il tango era danzato proprio da coppie di uomini, per divertimento, ma anche e soprattutto come modalità alternativa al duello per dirimere i litigi. Non a caso i movimenti ricordano a volte quelli di una lotta in cui l’uno tenta di dominare l’altro: l’aggressività e il conflitto vengono portati su un piano simbolico, dove nessuno si fa male sul serio.

Il tango, come lo swing, è stato un fenomeno culturale collettivo così dirompente da trasformarsi da forma espressiva di una nicchia sociale reietta ed emarginata, a pilastro di identità culturale di un’intera nazione, fino al riconoscimento UNESCO come patrimonio dell’umanità nel 2009.

Dove prima c’erano un “noi” e un “loro”, resta solo un “noi” più grande, più orgoglioso e con una storia in più da raccontare, non a parole, ma in movimenti, passi e musica.

Ma come si è arrivati da una sorta di accoltellamento danzato a quello che oggi per molti è il ballo della passione per antonomasia?

Amore e aggressività, odio e desiderio, bellezza e crudezza, vita e morte sono due facce della stessa medaglia, gli estremi legati da un filo in perpetua tensione, gli opposti che con la forza con cui cercano l’unione tengono insieme l’universo.

Il ballo, in definitiva, è un potente strumento di coesione psicologica e sociale.

Il ballo può contribuire a “curare” un’intera società dai suoi mali, ed a connettere tra loro gruppi sociali superando le disuguaglianze e i pregiudizi.

Al contempo, il ballo “cura”, nel senso che se ne prende cura, la psiche individuale e il legame tra le persone. “Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.”

Ringrazio Davide Rizzo per le notizie storiche sul lindy hop.

Alcuni link sconsigliati ai deboli di cuore:

– La scena più famosa del film Hellzapoppin’. L’acrobazia di cui ho parlato si può vedere intorno al minuto 2.10.

 

– Una scena del film Take the lead con Antonio Banderas, ispirato alla vera storia di Pierre Dulaine, maestro di ballo che ha portato il tango come metodo psicoeducativo nelle scuole dei quartieri più difficili di New York.

 

IL CORAGGIO DI ESSERCI, OVVERO DEL NOSTRO STRANO RAPPORTO COL DOLORE

Mi occupo della sofferenza psichica e mi interessano i social network: mi trovo spesso, quindi, a riflettere sulle narrazioni che i social network, e i media in generale, offrono del dolore, del disagio psicologico e delle relazioni problematiche.

Spoiler alert: in questo articolo salterò di palo in frasca e il filo che tiene insieme l’intero discorso sarà piuttosto lungo.

E’ impossibile non notare come nella nostra società ci sia spesso una tendenza a patologizzare ogni problema, a fare di ogni difficoltà una “malattia”, non solo in ambito psicologico. E ogni malattia, si sa, ha una cura.

Hai raffreddore, influenza, mal di gola? Non sia mai che tu accolga questi tollerabili e momentanei sintomi come un invito del tuo corpo a fermarti, prenderti del tempo per te e riposarti! Da oggi c’è Fluoactisparapower compresse masticabili, e sei subito produttivo, performante, allegro, pronto per tre riunioni di lavoro, la partita di calcetto, la recita scolastica dei tuoi figli, la pizzata del gruppo classe e la gara di arrampicata in notturna!

Qualcosa di simile in ambito psicologico avviene, ad esempio, con i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) dei bambini: sono sempre esistiti bambini che facevano più fatica di altri ad imparare a leggere, scrivere, calcolare o semplicemente stare seduti e attenti, ma da un decennio o poco più improvvisamente sembra non esserci una sola classe senza bambini dislessici, disgrafici, discalculici e con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, il tanto discusso ADHD.

La sproporzione tra l’incidenza percentuale “teorica” di questi disturbi e la frequenza con cui vengono sovra-diagnosticati è impressionante.

Ovviamente, una volta fatta la diagnosi, arriva la cura: facilitazioni, strumenti compensatori, differenze nelle modalità di valutazione dell’allievo, tutte cose che da un lato aiutano il bambino con difficoltà a progredire nell’apprendimento, dall’altro sottolineano e rischiano di amplificare il divario tra lui e gli altri, con potenziali conseguenze negative sul piano psicologico e relazionale.

Non sto dicendo che i DSA e l’ADHD non esistano, ma credo che molto spesso vengano confusi con qualcosa che rientra nella variabilità dei tempi, dei modi e delle forme di ognuno, di ogni mente meravigliosa anche e soprattutto perché unica e irripetibile.

Questo, purtroppo, mal si concilia con le esigenze della scuola, dove ci si aspetta che tutti raggiungano gli stessi obiettivi nello stesso quadrimestre e che bambini di sei anni che spesso non hanno ricevuto alcuna disciplina fino all’estate precedente all’improvviso stiano seduti, fermi e zitti per ore. E’ possibile una scuola diversa? Non ambisco ad affrontare un tema così elevato, più filosofico che psicologico.

Questo era solo un esempio dei tanti ambiti in cui un momento di difficoltà, o semplicemente un fattore di variabilità individuale, viene reificato in un problema o peggio trasformato in una malattia.

Ma perché allora, nelle narrazioni che i social network, e i media in generale, offrono del dolore, del disagio psicologico e delle relazioni problematiche si assiste molte altre volte a una indebita normalizzazione, minimizzazione e banalizzazione?

Talvolta si intravede addirittura una esaltazione estetica di alcune espressioni di disagio, come ad esempio l’autolesionismo raffigurato in immagini artefatte, dai toni romantici ed edulcorati.

Il bullismo e il cyberbullismo sono fenomeni multiformi, estremamente diffusi nei gruppi istituzionali di bambini e adolescenti (scuola, sport, oratorio…), e sono alla base purtroppo anche di casi di suicidio in giovanissima età. Sono costellati non solo da dinamiche di gruppo disfunzionali, ma anche di aspetti sociologici come il razzismo, l’omofobia, il classismo e altre forme di discriminazione e di violenza.

Nonostante tutto ciò, troppo spesso il bullismo e il cyberbullismo vengono ancora etichettati come “ragazzate”, cose normali che si devono risolvere da sole, o peggio, come qualcosa di giusto e utile per regolare le relazioni tra bambini e per dare alle vittime un’occasione per “imparare a farsi valere”, “comportarsi in modo più normale” e “non lasciarsi mettere i piedi in testa”. In una parola, “sani” inviti a interiorizzare una cultura di gruppo basata sulla violenza, sull’omologazione e sulla competizione, rivolti a chi disgraziatamente avesse altre aspettative, magari di essere rispettato e accettato nella sua unicità.

A partire dall’infanzia fino alla giovane età adulta passando per l’adolescenza, un disagio emotivo e relazionale può esprimersi attraverso una tendenza a isolarsi in casa e un rifiuto delle attività che possono far parte del percorso di una persona in questa fase della vita, che si tratti della scuola, dell’università o della ricerca e mantenimento di un lavoro, finendo per restare a casa senza portare avanti alcuna progettualità.

Queste forme di disagio in età infantile, adolescenziale e in giovane età adulta si accompagnano spesso alle dipendenze comportamentali, tra cui la cosiddetta “dipendenza da internet”, che comprende un abuso e un uso eccessivo di social network, videogiochi, gioco online (d’azzardo e non), “abbuffate” di serie TV online: un isolamento in un mondo di fantasia investito di tutta l’importanza, la gratificazione, l’impegno, gli affetti e la dedizione che il ragazzino, l’adolescente o il giovane non riesce a dare e ricevere nel suo mondo sociale.

Di fronte ad un ragazzo che passa le giornate a dormire e le notti a giocare con i videogiochi, o ad una ragazza che sembra non avere altra passione al di fuori della serie cult del momento, né legami oltre a quelli fantasticati con i suoi personaggi, spesso la reazione è quella, per così dire, di guardare il dito che indica la luna anziché guardare la luna.

Ecco quindi che quei ragazzi diventano “pigri”, “svogliati”, “mammoni”, “incapaci di darsi da fare nella vita”… proprio come era etichettato il bambino di trent’anni fa che ancora confondeva le lettere tra loro in quarta elementare, e magari dislessico lo era veramente!

Il dito, ovviamente, è quello “starsene sempre tappati in casa incollati al tablet”, la luna è il complesso disagio con se stessi e con gli altri a cui ho accennato prima.

La situazione è davvero complessa: c’è una dipendenza non riconosciuta, c’è un’autostima insufficiente, ci sono aspetti sociologici quali i limiti del sistema scolastico, la cultura della competitività e dell’apparire, le oggettive difficoltà dell’attuale mercato del lavoro italiano, una formazione universitaria spesso distante dalla realtà, ci sono dinamiche relazionali disfunzionali in famiglia e/o nel gruppo dei pari, magari c’entra anche il bullismo cui ho accennato prima. Ecco, forse allora è più facile contare le ore passate a giocare online o le puntate della serie guardate in una sola notte, perché alzare lo sguardo su tutta quella complessità spaventa.chair-3209341_1280

Oltre alla paura della complessità, credo vi sia un altro fattore alla base della normalizzazione, della banalizzazione e del non riconoscimento di alcune forme di sofferenza psicologica: la sopravvivenza, pur nella società contemporanea, di ancestrali residui di una cultura e di una spiritualità che magnificano la sofferenza come prova di forza e adeguatezza, e allo stesso tempo la colpevolizzano come prova di debolezza.

Penso, ad esempio, al mancato riconoscimento di alcune forme di sofferenza (psichica e non) delle donne: l’endometriosi è drammaticamente sotto-diagnosticata e troppo spesso etichettata come “normale dolore da ciclo mestruale” che “una vera donna” deve solo sopportare, ignorando le pesanti conseguenze dell’endometriosi sulla salute e sulla fertilità.

Allo stesso modo, la depressione post-partum è spesso trascurata.

Talvolta essa viene narrata, non senza una punta di paternalismo e ipocrisia, come “normale”, aiutando da un lato le donne a non sentirsi sole di fronte a quell’inondazione di tristezza e brutti pensieri che le travolge, ma contribuendo dall’altro a sottovalutarne l’importanza.

Altre volte, ed è peggio, è ancora trattata come un tabù: sembra impensabile che una neo-mamma provi qualcosa che non sia la più pura felicità in quello che “dovrebbe” essere il momento più bello della sua vita.

“Ma come, vorrebbe dormire e si sente affaticata? Ha voluto la bicicletta e ora pedala!”

“Ha bisogno di supporto? Glie lo dico io come deve fare a crescere suo figlio visto che lei non è capace, ma guarda un po’, lei vuole fare di testa sua e rifiuta il mio aiuto!”

“Non riesce a stare dietro al neonato, al bucato, alla cucina, alle pulizie e magari a uno o più figli maggiori? Ma se sta a casa tutto il giorno!”

Per non parlare del caso in cui lei non stia a casa tutto il giorno, ma sia più o meno costretta ad un rientro al lavoro più o meno precoce, con tutta la complessa varietà di implicazioni che il rapporto tra maternità e lavoro può comportare. Credo che un tema così articolato meriterà un articolo a parte.

No, piangere tutti i giorni, pensare a farsi del male, pentirsi di essere diventata mamma o urlare contro il neonato durante i suoi primi mesi di vita non è normale, ma non è nemmeno strano, e soprattutto non è una colpa né un segno che una donna non sia all’altezza della maternità.

E’ piuttosto un segno di una grande sofferenza endemica della nostra società, dove commentare (online e non) è sempre più facile ma ascoltare è sempre più difficile; dove il congedo di maternità dura la metà dell’allattamento raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, e quello di paternità nel tempo di nominarlo è già trascorso; dove siamo sempre connessi ma sempre più soli ognuno nelle proprie abitudini; dove tra un po’ per suonare un campanello sarà necessario firmare l’informativa sulla privacy, ma se non pubblichi la cronaca fotografica quotidiana della tua maternità dalla prima ecografia alla prima comunione sembra che tu non sia una madre felice, presente e innamorata della tua creatura (e se lo fai ci si aspetta che tu appaia in perfetta forma, ben vestita e con trucco e parrucco degno di Kate Middleton).

Le neo-mamme hanno bisogno di compagnia, ascolto, rispetto, riconoscimento e sostegno nelle piccole cose, prima di tutto dai loro compagni e dalla loro famiglia, ma anche dalla società intera. Non un riconoscimento che si misura dai “like” a una foto, né un sostegno che si possa esprimere in un commento ad un post: una vicinanza reale, non giudicante e rassicurante.

Tutte cose da cui una retorica che normalizza alcune forme di sofferenza e allo stesso tempo le stigmatizza come prova di indegnità esonera lo spettatore.

In conclusione, per relazionarsi a qualcuno che soffre ci vuole coraggio. Il coraggio di tollerare la complessità, di non cercare scorciatoie, di ascoltare prima di parlare, di guardare dietro le apparenze. Il coraggio di mettersi davvero nei panni dell’altro, o nelle sue scarpe come dice un proverbio dei nativi americani, e provare a camminarci. In una parola, il coraggio di esserci.

ULIVI SOTTO LA NEVE

New York, primi anni 2000.

Nei bagni di una prestigiosa scuola religiosa c’è una ragazza che piange. Si lava e si pulisce meglio che può, ma si sente ancora addosso quell’odore disgustoso: le compagne l’hanno buttata in un bidone della spazzatura.

Trovano divertente umiliarla in continuazione. Si guarda nello specchio del bagno e si chiede cosa ci sia di sbagliato in lei. “Tutto”, si risponde odiandosi: è grassottella, eccentrica e ha interessi e passioni differenti da tutte le sue compagne.

Ha ottimi voti ed è molto studiosa e disciplinata, ma ora basta, questa ennesima aggressione è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: vuole abbandonare la scuola.

Londra, 1998.

In un letto di ospedale c’è un ragazzo di ventun anni che si sente come se si fosse spezzato in due. Non è soltanto il dolore lancinante in tutta la schiena, sono anche e soprattutto le parole dei medici: gli hanno detto che probabilmente non potrà mai più camminare.

Credeva di essere all’inizio di una vita meravigliosa, ma ora è paralizzato e darebbe tutto ciò che ha per tornare indietro e non commettere l’imprudenza di arrampicarsi sul tetto da cui è caduto.

Edimburgo, metà anni ‘90.

In un piccolo e scarno appartamento c’è una donna sui trent’anni che vede tutto nero.

E’ divorziata, è senza lavoro e se non fosse per i sussidi statali non riuscirebbe nemmeno a nutrire la sua bambina.

Oggi ha ricevuto una telefonata che aspettava col cuore in tumulto: non era soltanto un’importante opportunità professionale, era il suo sogno più grande. Ma ha risposto al telefono solo per sentirsi dire “no” per la dodicesima volta: non vede via d’uscita.

 

Ho raccontato brevemente di tre persone che hanno sperimentato tutta la propria fragilità, che si sono sentite delle nullità, che hanno creduto di aver sbagliato tutto, perso tutto e di non poter mai più essere felici. Tre persone che avevano qualcosa che faceva brillare i loro occhi quando lo facevano o quando anche solo ne parlavano, ma erano convinte che di tutti i loro progetti non avrebbero realizzato nulla.

I loro nomi erano Joanne Rowling, Orlando Bloom e Stefani Germanotta, meglio nota però come Lady Gaga. Sui loro meriti e successi non è compito mio dilungarmi: si presentano da soli a chiunque non abbia vissuto da solo sulla cima di una montagna del Tibet negli ultimi dieci o vent’anni, ed anche per loro, se stanno leggendo questo articolo, Wikipedia è a disposizione.

Non è mia intenzione scrivere l’ennesimo predicozzo pseudo-motivazionale sulla moderna parabola dell’eroe che dal nulla si è creato un impero di fama e ricchezza. Sappiamo bene, del resto, che il successo non coincide con la felicità.

Per nostra fortuna, c’è di buono che per essere felici non bisogna per forza vincere un Oscar e nove Grammy, o essere nominati l’attore più bello di Hollywood, o essere l’autrice del libro più venduto nella storia dell’editoria.

No, se ho attirato l’attenzione di chi legge raccontando queste tre storie l’ho fatto per mostrare che tutti, ma proprio tutti, attraversiamo nella vita dei momenti in cui ci sentiamo paralizzati, o come se fossimo finiti in un bidone della spazzatura, o in cui crediamo che la nostra vita sia un totale fallimento: momenti di dolore che ci sembrano insuperabili fintanto che ci siamo dentro.

Siamo ricoperti da così tanta neve, l’inverno è così rigido e così lungo, che ci dimentichiamo di essere ulivi, esseri viventi che non perdono mai le foglie, e sanno conservare il sole dentro di sé per dare i loro preziosi frutti. Non li donano però durante la bella stagione come tanti altri, ma proprio quando si avvicina il freddo.

Qualunque sia il dolore, è una fase, è soltanto una fase, un passaggio da attraversare, e anche se fatichiamo a crederlo non durerà per sempre: finirà, o meglio si trasformerà.

Questo non significa, ovviamente, che basti stare fermi ad aspettare che magicamente la fortuna torni a sorriderci: interminabile come un esercizio al pianoforte, faticoso come una seduta di fisioterapia, esasperante come l’ennesima revisione di uno scritto sarà il lavoro interiore ed esteriore che scioglie la neve e scalda lentamente i frutti acerbi.

E tutto quel dolore non sarà stato invano, anzi. Così come i tre artisti di prima hanno tratto anche dai loro momenti bui la loro intensità espressiva, attraversare la sofferenza ci rende più completi, più veri e più vivi.

Dopo essere stati toccati dal dolore ci ritroviamo più ricchi di risorse interiori, di cui forse non ci accorgiamo nemmeno, ma che ci rendono anche persone potenzialmente più empatiche, più vicine agli altri, più pronte a comprenderli e a curarcene (non a caso ho scelto tre artisti noti anche per il loro impegno sociale).

Tutto questo perché per quanto grande possa essere l’evento che ci colpisce, non è tanto ciò che ci accade a definirci, ma come lo viviamo, cosa ce ne facciamo, che posto gli diamo nella nostra vita, in cosa lo trasformiamo.

Mi scalda il cuore pensare che una ragazzina umiliata per anni a scuola ora gira il mondo in tournée di concerti e dirige una fondazione a sostegno delle vittime di bullismo, o che un ragazzo che credeva di aver perso l’uso delle gambe ha poi combattuto le battaglie di tanti eroi fantastici, o che una donna rimasta ai margini della società e della vita ora è più ricca della regina Elisabetta d’Inghilterra solo grazie alla sua sfrenata immaginazione e creatività.

Ciò che mi scalda il cuore ancora di più, però, è pensare a tutti gli ulivi silenziosi intorno a me, che nessuno applaude mentre si scrollano la neve di dosso, tornano a far splendere il verde argenteo delle loro foglie al primo timido sole e si preparano a un nuovo ciclo della vita. Tanti, tantissimi ulivi che nessuno premia, ma che innalzano ogni singolo giorno i loro piccoli fiori bianchi come una corona di vittoria e dignità, felici della propria silenziosa rinascita.

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LA DEPRESSIONE

La depressione è il disturbo mentale più diffuso in Italia, ma spesso è anche il meno riconosciuto e il più banalizzato.

La parola “depressione” e l’affermazione “sono depresso/a” sono entrati talmente tanto a far parte del linguaggio comune, che c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza affinché questo problema, e soprattutto le persone che ne soffrano, siano guardate con rispetto.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, ne soffrono nel nostro Paese ben 2 milioni e ottocentomila persone, anche se siamo tra i Paesi europei con una minore presenza di depressione nella popolazione.

Le donne (9,8%) sono colpite quasi il doppio degli uomini, e la percentuale di anziani che ne soffrono (14,9%) è quasi tre volte superiore a quella dei più giovani.

Essere depressi non significa semplicemente essere tristi, giù di corda, molto delusi per qualcosa o annoiati. La depressione non è qualcosa che possa essere risolto con una passeggiata, una serata di divertimento, un incoraggiamento o un gelato al cioccolato.

La depressione è un disturbo dell’umore, e come tale non è tra gli aspetti della vita che possiamo controllare semplicemente con la nostra volontà.

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La depressione è una condizione profondamente limitante per chi la vive. Tristezza, apatia, convinzioni negative su se stessi e sulla propria vita, mancanza di slancio e interesse verso attività e idee, impossibilità di fare progetti, di porsi e perseguire un obiettivo, pensieri rivolti alla morte: tutti questi vissuti incombono sulla persona fino a farla sentire come se fosse sola in una stanza buia da cui non riesce a uscire, guardando la vita attraverso il buco della serratura.

Oltre ai vissuti emotivi, la depressione ha ripercussioni fisiche difficili da ignorare: senso di spossatezza perenne, lentezza nei movimenti, nelle azioni e nel parlare, difficoltà a concentrarsi, diminuzione dell’appetito e dell’interesse per il sesso, letargia o disturbi del sonno.

Nella vita quotidiana, le limitazioni che la depressione comporta possono andare da una progressiva riduzione della vita sociale e del rendimento lavorativo, a serie ripercussioni sull’eventuale relazione di coppia, ad una imponente difficoltà a stare fuori dal letto e ad uscire di casa, con possibile perdita del lavoro, isolamento e disinteresse generale per la vita, fino purtroppo ad arrivare a farsi del male o tentare il suicidio. Una persona con depressione su 10 nel corso della vita ha compiuto almeno un tentativo di suicidio.

Nel suo nucleo più profondo, la depressione è l’impossibilità di avere e fare progetti, di guardare la vita con occhi desideranti, di pensare al futuro.

La depressione, però, non è un qualcosa di unico, sempre uguale a se stessa o semplice da definire.

Si possono distinguere principalmente tre tipi di depressione, molto diversi tra loro, non tanto nel tipo di sintomi, quanto piuttosto nel ruolo che occupano nella vita di chi ne soffre.

– Depressione maggiore o endogena

E’ una vera e propria malattia, che non può in alcun modo essere sottovalutata o banalizzata.

Riguarda meno della metà del totale delle persone con qualche tipo di problematica depressiva.

Si caratterizza per una durata molto lunga, a volte indefinita, e per la presenza in misura imponente e pervasiva dei sintomi descritti sopra.

La persona che ne soffre può essere sempre triste, nutrire profondo pessimismo su se stessa e il futuro, non provare interesse e desiderio verso niente, isolarsi e non riuscire a coinvolgersi nelle attività quotidiane, perfino pensare alla morte e al suicidio, talvolta senza che sia apparentemente possibile per chi le sta intorno individuare una causa scatenante, un evento negativo importante che “giustifichi” tutto ciò.

La depressione endogena, però, è tale proprio perché arriva dagli strati più profondi della storia e della psiche di chi ne soffre.

Si ritiene che nella depressione endogena abbiano un ruolo i fattori organici e biologici, legati al funzionamento dei neurotrasmettitori e del sistema nervoso, insieme alle primissime esperienze affettive dell’infanzia, e perfino alle sofferenze di chi ci ha preceduto nelle generazioni passate della nostra famiglia.

E’ possibile che esista in alcune persone una predisposizione genetica, una vulnerabilità innata alla depressione, che si tramuta in realtà se incontra esperienze di vita che attivano vissuti depressivi, un po’ allo stesso modo in cui esistono persone geneticamente predisposte ad abbronzarsi più di altre, ma come tutti si abbronzano soltanto se si espongono al sole.

In caso di depressione maggiore, una terapia farmacologica può essere necessaria per sostenere il paziente, possibilmente abbinata ad una psicoterapia. La combinazione delle due cose è la cura più efficace.

– Depressione reattiva

Come suggerisce il termine, è una reazione ad un evento esterno avverso chiaramente identificato. Un lutto, il pensionamento, la perdita del lavoro, un figlio che se ne va di casa, la fine di una relazione sentimentale, lo sradicamento dalla propria terra di origine: si tratta comunque di una qualche forma di perdita importante.

Quella persona o cosa non era solo parte della nostra vita, ma anche della nostra stessa identità, ed ora che l’abbiamo persa è come se fosse morta una parte fondamentale di noi stessi.

Il dolore di questo momento, però, è qualcosa di più e di diverso da un sintomo da eliminare. Questa è una foresta buia che è necessario attraversare per proseguire il viaggio della nostra vita, è una sosta dove ci sentiamo deboli, ma ci renderà più forti.

In una società come la nostra, che ci vuole veloci, efficienti e sempre sorridenti, è difficile pensare alla depressione reattiva come a qualcosa di sano, eppure è così.

Di fronte ad un lutto, ad esempio, alcune persone, sopraffatte dal dolore oppure preoccupate di proteggere i loro cari, non permettono a se stesse di sperimentare la tristezza e la perdita: si sforzano di apparire allegre, diventano o rimangono estremamente attive, evitano ad ogni costo di parlare della persona defunta. Sperano così di saltare, o di far saltare ai loro cari, la fase più profonda della sofferenza. Purtroppo, però, il dolore non sparisce, finisce da qualche altra parte, e si ripresenterà in modi e tempi imprevedibili, fino a che non verrà affrontato.

Chi esprime una depressione reattiva, invece, ha cominciato ad affrontare il dolore, sta attraversando la foresta buia, e con i propri tempi e modi arriverà a rivedere il sole e a ritrovare il sentiero.

Non a caso nei tempi antichi, quando non avevamo gli psicofarmaci ma una saggezza che ora abbiamo perso, chi perdeva una persona cara doveva “portare il lutto” per un anno, con una serie di prescrizioni sull’abbigliamento e le attività quotidiane: la fase depressiva che stava attraversando era così riconosciuta, accettata e rispettata da tutti.

Chi soffre di depressione reattiva può trarre grande beneficio dal sostegno accogliente, incondizionato e non giudicante delle persone che lo circondano, ma anche da un percorso di supporto psicologico.

– Depressione endo-reattiva

A volte una depressione reattiva si protrae molto a lungo dopo l’evento che l’ha scatenata, i sintomi sono imponenti e non sembrano migliorare.

Non è possibile stabilire la “data di scadenza” che sancisce la fine di una tristezza “sana” e l’inizio di una “patologica”: ognuno ha i propri tempi per superare un lutto o una perdita.

Quello che distingue la depressione endo-reattiva da quella reattiva è una sproporzione, un eccesso nell’invasività e nella durata dei sintomi, percepita dalla persona stessa per prima.

Non è facile per chi è vicino ad una persona con depressione comprendere quando è il momento di accettare la situazione e quando è ora di spronare l’altro a reagire: l’ “esperto” in questo caso non è altri che chi soffre. Solo chi vive la situazione in prima persona può, ascoltando profondamente se stesso e le stagioni della propria anima, dare il ritmo alla camminata verso la rinascita.

Un discorso a parte merita la depressione post partum, un grande tabù della nostra cultura.

Ora che (fortunatamente!) nella nostra società avere un figlio è diventata la realizzazione di un desiderio, e non tanto di un dovere o di un evento naturale e incontrollabile, al momento della sua nascita non sembra esserci spazio per altro che non sia incontenibile gioia e felicità: se c’è tristezza, smarrimento, senso di perdita, paura di essere inadeguate, allora scatta anche il senso di colpa per questi sentimenti che devono per forza essere “sbagliati”.

Ma perché, in quello che ci si aspetta essere, ed è, l’evento che molte persone considerano il più felice della propria vita, una donna può sentirsi depressa, svuotata, triste, piangere spesso, non sentire di avere le forze per prendersi cura del proprio bambino, e addirittura pensare alla morte o a fare del male a se stessa e al piccolo?

Hanno certamente un ruolo fattori ormonali legati alla gravidanza. Come è noto, e al di là di facili umorismi sessisti, gli ormoni possono influenzare l’umore, i pensieri e i comportamenti delle persone: non c’è da stupirsi che questo avvenga al momento della più rapida ed eclatante trasformazione fisica che il corpo umano possa affrontare.

Sarebbe molto scorretto, però, ridurre un problema serio come la depressione post partum a uno squilibrio bio-chimico: gli intrecci di fattori psicologici, sociali e culturali non possono essere trascurati.

La condizione femminile nell’Europa del ventunesimo secolo è più contraddittoria di quanto vorremmo poter pensare.

Sempre fortunatamente, nella nostra società il ruolo di madre non è più l’unico che una donna può assumere, e avere un figlio non è più l’unico atto di valore che una donna può compiere: noi donne abbiamo anche una vita professionale e intellettuale, possiamo essere artiste, attiviste e molte altre cose ancora.

A questo punto rischiamo quindi di trovarci doppiamente penalizzate: da un lato, perché alla nascita di un bebè dobbiamo almeno momentaneamente accantonare tutto il resto, perdendo temporaneamente il contatto con parti importanti della nostra identità; dall’altro lato, perché i fantasmi antichi sono appena dietro la porta, insieme ai pregiudizi che portano una mamma lavoratrice, sindaco o direttrice di una corale a sentirsi mortalmente in colpa se ha ancora altri obiettivi oltre a quello di dedicarsi al suo bambino.

A questo si aggiunge il fatto che se un tempo, almeno in campagna e nei piccoli centri abitati, le famiglie erano più numerose, tendevano ad abitare insieme, la comunità era improntata a una fitta rete relazionale tra donne e pertanto la neo-mamma era sempre circondata di persone, attenzioni e consigli (forse anche troppi!), oggi sempre più donne si trovano ad affrontare la maternità in casa da sole, talvolta lontane centinaia di chilometri dalla loro famiglia di origine, con amiche e parenti che hanno poco tempo ed energie a disposizione per aiutarla o anche solo tenerle compagnia.

Ben vengano, certo, le molte attività per mamme e neonati oggi disponibili, dall’acquaticità ai corsi di massaggio neonatale, dai gruppi tematici ai corsi di aerobica col passeggino, che oltre ad essere pensate per il benessere dei piccoli aiutano le mamme ad uscire, conoscere persone nuove con cui condividere molte cose, parlarsi e sostenersi fra loro, ma non è questo a risolvere una delle più preoccupanti emergenze della salute mentale del nostro tempo.

Sarebbe bello se ai cambiamenti realizzati nella condizione femminile ne corrispondessero altrettanti nella condizione maschile, e fossero date ai padri più opportunità di conciliare la vita lavorativa e famigliare: il sostegno e l’amore delle persone a lei più care, infatti, sono la più grande protezione per una mamma contro la depressione post-partum.

Ultimo ma non ultimo, soprattutto nei Paesi dell’Europa mediterranea, siamo pur sempre intrisi di una spiritualità che fonde la maternità con elementi religiosi e archetipici di forte impatto sull’inconscio collettivo.

La Madre per antonomasia rappresenta una perfezione “immacolata”, un amore sacrificale, una tale santità, che eleva noi madri terrene, cristiane o meno e consapevoli o meno, su un piedistallo quasi divino, ma al contempo ci getta in un confronto ideale da cui possiamo uscire solo “sconfitte”… questo, però, soltanto se dimentichiamo che siamo umane e che, come disse Winnicott, uno dei padri della psicologia, il bambino non ha bisogno di una madre perfetta, ma di una madre “sufficientemente buona”.